«Che senso avrebbe fare tutto come prima? Dobbiamo dare più spazio alle comunità e tornare a produrre il cibo che mangiamo»
Pubblichiamo l’intervista uscita su Gazza Golosa (La Gazzetta dello Sport del 20 marzo) a Carlo Petrini a cura di Daniele Miccione.
Buongiorno Petrini, come va chiuso a casa?
«Sono le 10.30 e mi sono svegliato da poco. Ho cambiato gli orari così la giornata è meno lunga. Mi occupo della nostra università di Scienze Gastronomiche che è indispensabile tenere in piedi. Sa che a Bra sono rimasti un centinaio di studenti provenienti da tutto il mondo? lo gli telefono, chiedo se hanno bisogno di qualcosa, gli faccio avere un libro. Stiamo anche pensando a un super master internazionale on line. Le nostre iscrizioni continuano a buon ritmo ma non è detto che le cose tornino rapidamente come prima. Viviamo alla giornata ma dobbiamo anche prepararci ai cambiamenti».
Una chiacchierata con Carlo Petrini è un soffio di aria fresca che spazza via i pensieri cupi. Perché il fondatore e presidente di Slow Food ha sempre lo sguardo rivolto al futuro. E quando gli chiedi come ne usciremo risponde sicuro: «Migliori di prima».

Petrini quando ha capito che il coronavirus era una cosa tremendamente seria?
«Man mano, come tutti gli italiani. Quando ho visto che il sistema sanitario non reggeva ho capito che la situazione era seria e bisognava seguire tutte le indicazione dell’autorità».
Dopo il virus che cosa succederà?
«Ci sarà un ridimensionamento delle politiche liberiste. Confido in un futuro più sostenibile, in tasselli di nuova economia da non misurare necessariamente attraverso il Pil. Che senso avrebbe ricostruire tutto come prima? Ci è data l’opportunità di fare un cambio di paradigma. Di reimpostare un sistema che dia più spazio ai territori e alle comunità. Penso che le tematiche della sostenibilità e della sovranità alimentare diventeranno all’ordine del giorno».
Sovranità alimentare? Pensa che ci voglia una nuova politica nella produzione del cibo che consumiamo?
«Non si può più pensare che il cibo lo produce uno solo per tutti. Abbiamo rubato spazio alla campagna, bisognerà riprenderselo per mettere in moto un’economia primaria al servizio delle comunità locali».
Come pensa possano sostenersi oggi le piccole botteghe?
«Bisogna fare uno sforzo di fantasia. Io penso a una versione moderna delle botteghe, gestite da giovani. Con l’accesso a Internet. con tutta una serie di servizi, dove magari si può ritirare la pensione. Ci vogliono nuove idee. A salvarci sarà la diversità».
E i ristoranti, la nostra filiera agricola di qualità. i tanti locali come ripartiranno?
«Dobbiamo prepararci a un paio di anni più tranquilli. Non ripartiremo a razzo con gli stessi fatturati perché non c’è la bacchetta magica. Dobbiamo prepararci a una strada in salita cercando prima di tutto di mettere in sicurezza i lavoratori. Noi per esempio siamo un’università privata, dovremo mettere una parte del personale in cassa integrazione mentre gli altri dovranno tenere in piedi la baracca. Ho chiesto però di fare un fondo comune per integrare il reddito di chi sarà in cassa integrazione. Ecco questo è il senso di comunità di cui parlo, di una dimensione più umana, di solidarietà. Ognuno nel suo piccolo può fare comunità: nel vicinato, nel quartiere, nel paese».
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